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L'infarto: primi impatti sulla vita dell'individuo.

2021-10-09 19:53

Dott.ssa Testa Maria Laura

Psicologia, Dott.ssa Testa Maria Laura,

L'infarto: primi impatti sulla vita dell'individuo.

L'infarto provoca una ferita che irrompe con violenza e rapidità, perturbando l’andamento della vita del singolo...

L’infarto consiste nella morte di una sezione del cuore che si verifica quando si blocca il flusso di sangue ad essa diretto. È convinzione diffusa che tutto ciò si verifichi con segnali chiari ed inequivocabili, quali il dolore al centro del petto, il dolore al braccio, il senso di nausea; talvolta, però, esso è asintomatico, mentre altre volte ancora è accompagnato da sintomi che, potendo essere associati ad altre problematiche, diventano fuorvianti (per esempio il dolore ai denti e alla mandibola, la sudorazione, la mancanza di fiato, la sensazione di affaticamento). In entrambi i casi l’infarto necessita di un intervento tempestivo.

Un attacco cardiaco, potendosi verificare in qualsiasi momento, è un evento che irrompe con violenza e con una certa rapidità, perturbando l’andamento della vita del singolo, della coppia e della famiglia.

L’atteggiamento iniziale dell’individuo di fronte al manifestarsi di un attacco di cuore può essere distinto in due modalità contrapposte: c’è chi è ben consapevole di quanto sta accadendo e, pertanto, è terrorizzato dall’idea di morire, e chi invece ignora completamente quanto sta per succedere (è questo il caso di quei pazienti che vengono salvati dall’intervento tempestivo di un parente o di un amico).

L’infarto provoca una ferita che non si vede ed ha natura improvvisa e durata circoscritta, quindi, a differenza di altre patologie che mettono ugualmente a rischio la vita della persona (come il cancro, la sclerosi multipla, ad esempio), nel momento stesso in cui sopraggiunge, non ha un effetto sconvolgente immediato nel progetto di vita del paziente, non gli fa percepire un angosciante senso di incertezza per il proprio futuro. È come se il pensiero si annullasse; esso poi si “riattiva” nel momento in cui avviene la comunicazione (da parte del medico/infermiere al soggetto) quando il peggio è passato: “hai avuto un infarto”.

Nell’immaginario collettivo il cuore è la sede delle emozioni, degli affetti; l’essere innamorati è sovente raffigurato con un cuore trafitto da una freccia: è un cuore cha ama, ma è anche un cuore ferito e la ferita provoca dolore, sofferenza, come l’amore. L’immagine del cuore trafitto, quindi, rende efficacemente anche il senso di “stretta”, “costrizione” e “oppressione” al petto provocato dal dolore di origine cardiaca, dolore denominato in medicina “angor”, termine latino che ha il doppio significato di “soffocamento”, “stringimento” e di “angoscia”. Ed è proprio questo il vissuto più frequentemente riferito da chi ha da poco saputo di aver avuto un infarto: l’angoscia, quella derivante dalla consapevolezza che si stava ad un passo dalla morte quando si credeva che tutto stesse andando come al solito, quando si stava vivendo la vita di tutti i giorni.

La ferita al cuore che c’è ma non si vede, insieme all’assenza (talvolta) di segni visibili sul corpo di quanto è avvenuto ed è stato violentemente e diffusamente percepito dal soggetto, determinano una duplice reazione: in alcuni casi protraggono il senso di paura e di angoscia, perché quanto accaduto resta qualcosa di sconosciuto (e tale sensazione è amplificata in chi ha avuto un infarto asintomatico o che all’apparenza sembrava altro), mentre in altri “colludono” con un atteggiamento preesistente di negazione. In entrambi i casi c’è un vissuto di estraneità: l’individuo non entra in relazione diretta e consapevole con la sua patologia. La mancanza di relazione con la patologia, con il proprio cuore malato, si evince anche nel linguaggio adottato da alcuni pazienti: “sono infartuato” è un’espressione poco utilizzata rispetto a “ho avuto un infarto”. Ciò mette in luce alcuni errori epistemologici espressi dalla necessità del soggetto di oggettivare, di rendere la propria patologia qualcosa di staccato da sé, per poter intervenire su di essa, non comprendendo di essere anche il proprio problema e non tenendo conto così dell’unità mente-corpo.

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